martedì 31 maggio 2016

Bio-bibliografia di Elizabeth von Arnim


CIRCOLO DI LETTURA “DONNE E...”
primo appuntamento “Donne e … amicizia” - 20 novembre 2016
in collaborazione con NamasTèy
Libro consigliato: “Uno chalet tutto per me” di Elizabeth von Arnim

Elizabeth von Arnim, pseudonimo di Mary Annette Beauchamp (Kiribilli Point, 31 agosto 1866 – Charleston, 9 febbraio 1941), nasce, nella casa delle vacanze, da una famiglia della borghesia coloniale inglese di Sydney. Il padre è un commerciante. Quando Elizabeth ha tre anni, la famiglia torna in Inghilterra, dove la bimba cresce con quattro fratelli ed una sorella. Una delle sue cugine è la scrittrice Katherine Mansfield, pseudonimo di Kathleen Beauchamp (neozeladese, nata nel 1888), considerata una delle migliori scrittrici di racconti della sua epoca.
Nel 1891, a 25 anni, Elizabeth sposa il conte prussiano Henning August von Arnim-Schlagenthin, figlio adottivo di Cosima Wagner, conosciuto durante un viaggio in Italia. Cosima Wagner, cioè la suocera di Elizabeth, (nata a Como nel 1837 e morta a Bayreuth nel 1930), era la figlia illegittima del pianista e compositore ungherese Franz Liszt e fu la seconda moglie del compositore tedesco Richard Wagner.
Le nozze Beauchamp-von Arnim vengono celebrate a Londra; i coniugi vanno a vivere in un primo tempo a Berlino e poi si trasferiscono nella residenza della famiglia von Arnim in Pomerania (oggi Polonia). Hanno cinque figli: quattro bambine e un maschio. Tra i precettori dei bambini sono Edward Morgan Forster, noto come E.M. Forster (scrittore britannico, nato nel 1879 ed autore, tra l'altro, di Camera con vista del 1908, Casa Howard del 1910, Passaggio in India del 1924) e Hugh Walpole (scrittore britannico considerato tra i più prolifici della letteratura britannica nel XX secolo). Ma il matrimonio non è felice sia per incompatibilità di carattere dei coniugi sia per le difficoltà finanziarie conseguenti all'arresto di Henning August per truffa.
Elizabeth inizia a scrivere e nel 1899, a 33 anni, pubblica Elizabeth and her German garden (trad. in italiano Il giardino di Elizabeth), un'opera semi-autobiografica, anonima, in cui l'io scrivente si chiama "Elizabeth". Il romanzo ha un immediato successo e viene ristampato più volte. Dopo poco l'autrice pubblica altri due romanzi semi-autobiografici: The Solitary Summer (1899) (Un'estate da sola) e The Benefactress (1902) (Il circolo delle ingrate). È l'inizio di una luminosa carriera di scrittrice. Pubblica altri diciotto volumi firmati «by the author of "Elizabeth and her German garden"»; poi firmerà le sue opere più semplicemente come "Elizabeth", senza cognome. È la consacrazione della fama.
Nel 1908 la coppia lascia la casa in Pomerania e torna a Londra, dove, due anni dopo (1910) il Conte von Arnim muore. Nello stesso anno Elizabeth cura la costruzione in Svizzera dello chalet "Château Soleil", nei pressi di Randogne (Cantone Vallese), chalet in cui è ambientato Uno chalet tutto per me. Lo Chalet è vivace luogo di incontri con la società intellettuale dell'epoca.
Dal 1910 al 1913 è l'amante del coetaneo Herbert George Wells, che ne parla come della donna più intelligente della sua epoca. Wells, meglio conosciuto come H. G. Wells, è uno scrittore britannico tra i più popolari della sua epoca, assai versato in molti generi letterari; autore di alcune delle opere fondamentali di fantascienza, oggi è ricordato come uno degli iniziatori di quel genere narrativo. Il suo romanzo più noto è The War of the Worlds, 1897 (La guerra dei mondi). Il romanzo viene adattato da Orson Welles in un celebre programma radiofonico nel 1938. La storia, narrata nella trasmissione in forma di cronaca, viene interpretata in modo così realistico che parecchi, negli Stati Uniti, credono, molto impressionati e spaventati, che stia avvenendo una vera invasione di extraterrestri. È un vero caso mediatico.
Nel 1916, a 50 anni, Elizabeth sposa in seconde nozze il duca John Francis Stanley Russell, fratello maggiore di Bertrand Russell, l'importante filosofo, logico, matematico. Nello stesso anno, il 3 giugno, muore a Brema, in Germania, dove si era recata per perfezionarsi nello studio della musica, la giovane figlia Felicitas, di appena sedici anni. La tristissima vicenda diviene fonte di ispirazione per il romanzo epistolare antitedesco La storia di Christine che Elizabeth pubblicherà nel 1917 con lo pseudonimo di Alice Cholmondeley. E forse questa stessa dolorosa vicenda è quella che traspare nelle riflessioni della protagonista di Uno chalet tutto per me e che la spinge a recarsi in Svizzera a cercare isolamento e pace. In questo romanzo ritorna un altro tema caro alla Arnim: la solidarietà e l'amicizia femminile.
Si trasfer
isce negli Stati Uniti. Ma anche il matrimonio con Russell non è felice e dunque i coniugi si separano dopo appena tre anni, nel 1919. Separazione che comunque non ha mai portato ad un divorzio. Nel 1920 si innamora di Alexander Stuart Frere Reeves (1892–1984), editore inglese della famosa rivista letteraria Granta (nata nel 1889 e tutt'ora edita), di ventisei anni più giovane di lei. Alexander resterà accanto ad Elizabeth per anni, infine sposerà la giovane figlia del giallista Edgar Wallace e darà il nome di Elizabeth all'unica loro figlia.
Elizabeth von Arnim trascor
re altri anni della sua vita in Svizzera e Costa Azzurra; nel 1936 pubblica la sua autobiografia dal bizzarro titolo All the dogs of my life (I cani della mia vita). Infine nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti. Muore a Charleston nel 1941.
Bibliografia
Elizabeth von Arnim ha scritto molto. I suoi testi sono ripubblicati con continuità e tradotti in lingua italiana:
  • Elizabeth and Her German Garden, 1898 (Il giardino di Elizabeth, Bollati Boringhieri, 1989, 1993)


  • The Solitary Summer, 1899 (Un'estate da sola, Bollati Boringhieri, 2001, 2015)
  • April Baby's Book of Tunes, 1900
  • The Pious Pilgrimage, racconto, pubblicato nel 1900 a Boston in un’edizione di lusso e in contemporanea a New York su una rivista (Il giardino perduto, Skira, 2016)
  • The Benefactress, 1901 (Il circolo delle ingrate, Bollati Boringhieri, 2012, 2016 )
  • The Adventures of Elizabeth in Rugen, 1904 (Elizabeth a Rugen, Bollati Boringhieri, 1996, 2015)
  • Princess Priscilla's Fortnight, 1905 (Una principessa in fuga, Bollati Boringhieri, 2013, 2015)
  • Fräulein Schmidt and Mr Anstruther, 1907 (Lettere di una donna indipendente, Bollati Boringhieri, 2005; ripubblicato col titolo Una donna indipendente, 2014)
  • The Caravaners, 1909 (La memorabile vacanza del barone Otto, Bollati Boringhieri, 1995)

    • The Pastor's Wife, 1914 (La moglie del pastore, Bollati Boringhieri, 2003, 2015)


  • Christine, 1917 (La storia di Christine, Bollati Boringhieri, 2009, 2014), scritto con lo pseudonimo di Alice Cholmondeley
  • Christopher and Columbus, 1919 (Cristoforo e Colombo, Bollati Boringhieri, 2004, ripubblicato col titolo Due gemelle in America, 2014)
  • In the Mountains, 1920 (Uno Chalet tutto per me, Bollati Boringhieri, 2012, 2014)
  • Vera, 1921 (Vera, Bollati Boringhieri, 2006; Mursia, 2015)
  • The Enchanted April, 1922 (Incanto di aprile, Felice Le Monnier, 1928. Un incantevole aprile, Bollati Boringhieri, 1993)
  • Love, 1925 (Amore, Bollati Boringhieri, 1998, 2016)
  • Introduction to Sally, 1926 (Vi presento Sally, Bollati Boringhieri, 2008, 2014)
  • Expiation, 1929 (Colpa d'amore, Bollati Boringhieri, 2010)
  • Father, 1931 (Il padre, Bollati Boringhieri, 2007)
  • The Jasmine Farm, 1934 (La fattoria dei gelsomini, Bollati Boringhieri, 2011)

    • All the Dogs of My Life, 1936 (I cani della mia vita, autobiografia, Bollati Boringhieri, 1991, 2015)


  • Mr. Skeffington, 1940 (Mr Skeffington, Bollati Boringhieri, 2002, 2016)


  • Informazioni tratte da Wikipedia e dai molti siti dedicati ad Elizabeth von Arnim.
    CPT - novembre 2016

    Film tratti da opere di Elizabeth von Arnim

    • Da The Enchanted April sono stati tratti due film:
      • The Enchanted April (1935) diretto da Harry Beaumont, protagonisti: Ann Harding, Katharine Alexander e Frank Morgan
      • Un incantevole aprile (1992) diretto da Mike Newell, protagonisti: Josie Lawrence, Miranda Richardson, Polly Walker e Joan Plowright
    • La signora Skeffington (1944) diretto da Vincent Sherman, protagonisti: Bette Davis, Claude Rains e George Coulouris

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    ELIZABETH LA PRIMA DONNA. VITA E BESTSELLER DELLA VON ARNIM, SIGNORA AUDACE DEL '900

    NATALIA ASPESI, La Repubblica 31 gennaio 2012
    Elizabeth von Arnim scrisse 21 romanzi, ebbe due mariti, un conte tedesco oppressivo e un conte inglese vendicativo, cinque figli che non le diedero grandi soddisfazioni, un certo numero di amanti e di amatissimi cani; cugina e amica della più giovane Katherine Mansfield, visse in Germania, Inghilterra, Francia, Italia, Svizzera. Era nata a Kirribilli Point in Australia nel 1866, morì a Charleston negli Stati Uniti nel febbraio del 1941. Era piccola, carina, elegante, spiritosa, colta, piaceva molto agli uomini: a loro piaceva anche il denaro che lei cominciò a guadagnare con il suo primo libro, Elizabeth and her German garden, assoluto bestseller del 1898, che superò gli autori allora alla moda, come Maria Corelli e H.G. Wells. Continuò a vendere per anni, e quindi ad assicurare alla sua autrice un mucchio di sterline, di cui però, in tempi di assoluta irrilevanza sociale e giuridica delle donne, lei non poteva disporre. Essendo sposata, tutto quel denaro guadagnato da lei apparteneva per legge al marito, il primo: un marito particolarmente severo e litigioso, il conte prussiano Henning August von Arnim-Shlagenthin, che oltretutto di quei soldi aveva bisogno, perché il conte padre, che si era messo in testa di prendere il posto del cancelliere Bismarck, era stato spogliato dei possedimenti di famiglia. Fu sempre il suo denaro a rendere difficili i suoi rapporti con gli uomini: sposando in seconde nozze il conte Francis Russell, fratello maggiore del filosofo pacifista Bertrand ( Perché non sono cristiano ), ottenne la separazione dei beni, su cui forse lui aveva contato per sistemare le sue proprietà, e non la perdonò mai. Scrivere allora era l'unica forma di creatività femminile appena tollerata, e le scrittrici venivano spesso considerate creature sospette, poco raccomandabili, anche ridicole, almeno secondo la stampa satirica. Molte autrici sceglievano di tutelarsi, nascondendosi dietro un nome maschile, ma per Mary Annette Beauchamp, chiamata in famiglia May, sposata von Arnim, anche questo sotterfugio non bastava. Dopo furibondi litigi domestici, quella che poi avrebbe scelto di firmare i suoi ventun libri come Elizabeth von Arnim, ottenne dal marito il permesso di pubblicare la sua prima opera, a patto che risultasse di anonimo autore, in modo da rendere impossibile identificarla per non macchiare il glorioso stemma di famiglia. Con il titolo Il giardino di Elizabeth, il libro è stato pubblicato in Italia per la prima volta nel 1989, da Bollati Boringhieri, mandando in estasi una folla di raffinati lettori, che hanno poi scoperto a poco a poco gli altri romanzi di questa scrittrice ironica, spregiudicata, fuori da ogni corrente letteraria, spesso crudelissima nel descrivere una società boriosa, superficiale, vecchia, ingiusta, soprattutto verso le donne. Esce in questi giorni sempre da Bollati Boringhieri, Il circolo delle ingrate ( The benefactress ), suo quarto libro (il diciannovesimo per l' editore italiano) uno dei più autobiografici. Quando nel 1901 fu pubblicato in Inghilterra e Stati Uniti, la signora aveva 35 anni, 4 figlie tutte femmine, educate in casa da insegnanti come E.M. Forster e Hugh Walpole, e il suo più arduo impegno era riuscire a tenere lontano dal suo letto il non più sopportabile consorte, che pretendeva a tutti i costi quell'erede maschio che, May-Elizabeth era certa, non sarebbe mai arrivato. Detestando Berlino, era riuscita a stabilirsi con la famiglia in Pomerania, nel castello finalmente restituito agli Arnim, e che con i soldi da lei guadagnati e confiscati dal conte, era stato restaurato e circondato dal bel giardino tanto curato e amato dalla contessa, che poi ne aveva fatto il protagonista del suo primo libro. Anna, la benefattrice, è una bella e intelligente ragazza inglese senza soldi e, a 25 anni, è ormai destinata allo zitellaggio per la sua smania di rifiutare i pretendenti: da uno zio eredita una proprietà in Pomerania, dove va a vivere per realizzare un sogno: ospitare dodici signore maltrattate dalla vita e regalare loro, a sue spese, la felicità. Impresa ovviamente impossibile, perché le signore raccolte con un inserzione, si rivelano ingrate, invidiose, classiste, avide, bugiarde e persino con parentele disdicevoli (una sorella ballerina!, un figlio a caccia di moglie ricca! una nobiltà inventata!). Gli abitanti del villaggio sono ignoranti e diffidenti, ed è interessante come in un romanzo di inizio Novecento, quindi vecchio di 110 anni, scritto da una donna e perciò giudicato allora superficiale, si accenni a quell'antisemitismo già diffuso nella Germania imperiale anni prima dell' avvento del nazismo. È il buon pastore luterano a mettere in guardia la stupefatta e indignata Anna: «Qui in mezzo a noi, dappertutto, a prendere i soldi dalle nostre tasche, anzi il pane dalle nostre bocche, ci sono gli ebrei». E il sangue dalle vene cristiane, e gli omicidi rituali, sibila quello che sarebbe «il più mite degli uomini» e che, «anche solo a nominare la parola ebreo, veniva colto da una furia cieca». E gli altri maschi del paese, contadini, servitori? Sprezzanti delle donne, certi, in quanto uomini, di essere superiori anche alla bella signora ricca e colta, generosa e appassionata, ma svalutata in quanto donna. Esperienza autobiografica, come l'arresto del nobile vicino innamorato di lei e da lei fino ad allora respinto. Visitandolo in prigione, «Anna, quasi accecata dalla lacrime, gli cinse il collo con le braccia; con quell'unico gesto gli consegnò se stessa e il suo futuro completamente, ammainò per sempre la bandiera dell' indipendenza». Nella realtà, Henning era finito in prigione accusato di appropriazione indebita, e quella tragedia fece scoprire a Elizabeth come a quell'uomo più vecchio di lei, possessivo, gelido, litigioso, sempre sull'orlo della rovina finanziaria, impegnato ad allevare maiali e a coltivare patate con scarso successo, anche adultero, fosse profondamente legata. Il 27 ottobre 1902 nasceva finalmente l'erede maschio, Henning Bernd von Arnim, e come esentata da una colpa, la bella contessa, pacificata con il marito, con se stessa, con la vita, liberata dagli obblighi del suo rango e del suo genere, da quel momento può dedicarsi alla scrittura, ai giardini e ai cani, ai figli che l'adorano, ai viaggi e alla season di Londra, dove frequenta femministe e intellettuali che spesso sono più che semplici amici. Infatti, può essere che il piccolo Henning non sia un von Arnim ma un Russell, figlio del conte Francis, che, diventata vedova, anni dopo, innamoratissima, sposerà, rovinandosi gli anni della maturità. Nel periodo che precede la prima guerra mondiale, il bel mondo londinese pare travolto dagli scandali amorosi, da adulteri multipli, da drammatici divorzi, che coinvolgono anche la contessa-scrittrice. E per esempio la bella e libera signora diventa l'amante dello scrittore di fantascienza H.G. Wells ( La guerra dei mondi ), che già tradisce la moglie con un'amante ufficiale, per essere poi tradita con la tanto più giovane e appassionata saggista politica e femminista Rebecca West ( Il significato del tradimento ). Separata dal terribile conte Russell, Elizabeth, amica inseparabile del di lui fratello Bertrand, ogni tanto finisce nel suo letto malgrado l'alternarsi di quattro mogli, fino a quando, cinquantenne, di lei si innamora Alexander Stuart Frere Reeves, editore della rivista Granta, che ha 26 anni di meno, e le resterà legato per anni, sposando poi la giovane figlia del giallista Edgar Wallace. Quando compie settant'anni, Elizabeth scrive nel suo diario: «Adesso sono davvero una donna anziana, e non devo dimenticarlo. Ci si abitua talmente ad essere giovani che si finisce per credere che sarà per sempre. Mi devo ricordare che non è così e mi aiuteranno gli specchi».
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    «I CLASSICI DELLA LETTERATURA. GRANDI AUTRICI» a cura del Corriere della Sera

    Dal 4 luglio 2013
    PRESENTAZIONE DELL’OPERA
    Le grandi madri della scrittura, di Dacia Maraini

    Le donne leggono. Hanno sempre letto molto. Ci sono grandi e piccoli quadri che le ritraggono mentre tengono in mano un libro sdraiate su un divano o sedute su sedie imbottite, o distese su un prato, immerse nella lettura. Il pittore sembra osservare con occhi un poco invidiosi la capacità di concentrazione della sua modella che, quando legge, dimentica ogni cosa.
    Eppure in quel leggere silenzioso e segreto c’è un’intenzione nascosta che ha spaventato gli educatori e i controllori dei costumi di tutti i tempi. Da ricordare che Flaubert fu denunciato per avere scritto un libro pericoloso basato sull’adulterio (sto parlando di Madame Bovary) che, dovendo finire nelle mani delle «signorine da marito», avrebbe provocato danni «irreparabili». Evidentemente le signorine da marito dell’Ottocento erano avide di libri e quando affondavano il naso in un romanzo non mostravano molta voglia di uscirne.
    Qualcuno potrebbe dire che era un modo di viaggiare nel tempo e nello spazio, per una immaginazione femminile spesso costretta in stanze piccole e anguste, impedita ai viaggi e a qualsiasi avventura che non fosse casalinga. Forse era questo. Ma voglio pensare che ci sia qualcos’altro che spinge le donne – ancora oggi in maggioranza lettrici di romanzi – a innamorarsi così palesemente delle narrazioni su carta. Prima di tutto il mistero del passaggio del tempo. Perché corre tanto? Dove va? Da dove viene? Cosa provoca e cosa significa? Cosa conserva e cosa perde? Pensieri di chi è abituato storicamente a fare i conti con il proprio corpo che si trasforma, osservato con sorpresa, inquietudine e a volte sincera paura. Pensieri di chi cerca, come gli antichi prigionieri, di uscire da quella segreta, se non contando sulle proprie gambe, per lo meno sulla propria immaginazione e sui propri sensi profondi. Per chi sta ferma dietro una finestra (vi ricordate Emily Dickinson che non uscì mai dalla sua casa e non ebbe mai modo di pubblicare una sua poesia mentre era ancora in vita? E di Isabella Morra che, relegata nel castello di Valsinni, passava le giornate sulla torre a scrutare l’orizzonte per vedere se arrivasse qualcuno – il padre che glielo aveva promesso – a liberarla da quella prigionia?) il passare del tempo si presenta come un arcano incomprensibile.
    Il mistero della metamorfosi e del passaggio del tempo tenevano gli occhi delle lettrici aggrappati ai libri. Sprofondate nelle storie altrui, vivevano vicariamente destini lontani, vicende straniere. E i fantasmi di quelle storie colorivano di sé le piccole azioni quotidiane ripetute mille volte, i doveri che fissavano la giornata delle donne alla cucina, alla stanza da letto, al tinello. Un senso di eternità
    che si accompagnava alla reiterata quotidianità, che per la lettrice appassionata era segregazione e fonte di ispirazione, luogo di tortura e, appunto, finestra da cui osservava il mondo.
    Una donna che legge non fa paura. Ha gli occhi su una pagina scritta e sembra che dorma. Lo scintillio delle sue pupille – Ortega y Gasset scrive che si esce da un libro con le pupille dilatate – non è visibile. Eppure c’è. E può inquietare chi diffida e vede nel silenzio femminile un segno di pericolo. Qualcosa che cova e potrebbe provocare esplosioni impreviste. Non a caso i libri erano proibiti perfino dai medici per le giovinette che si preparavano a diventare madri.
    «Le donne non dovrebbero essere illuminate o educate in nessun modo. Dovrebbero, in realtà, essere segregate poiché sono loro la causa di orrende ed involontarie eccitazioni di uomini santi» scrive sant’Agostino, il coraggioso ed esposto sant’Agostino, che pure ha creduto nelle parole scritte, ha raccontato di sé in modo sincero e palese. Chissà se ha pensato che anche le sue parole potevano provocare qualche pensiero non pudico nel cervello di una lettrice. Ma è probabile che ritenesse le donne escluse dalla lettura delle sue Confessioni. Era una roba da uomini e basta. Eppure Agostino aveva una madre colta e una sorella che scriveva. Ma le parole di Cristo, che con la loro forza democratica avevano infiammato prima di tutto le donne e gli schiavi, si sono nel tempo pietrificate in quella sincera e prepotente preoccupazione di controllo che anima tutti i Padri della Chiesa.
    Non fu da meno san Tommaso, il severo e prestigioso censore che tanto si preoccupava perché tutti osservassero la gerarchia fra i sessi: «La donna trascina in basso l’anima dell’uomo che tende a una sublime altezza, portando il suo corpo in una schiavitù più amara di qualsiasi altra» scrive nella Summa Teologica, e c’è da inquietarsi pensando a quanta parte ha avuto nella educazione delle ragazze il suo pensiero paterno.
    Ma se proprio vogliono leggere – diranno qualche secolo dopo alcuni padri di famiglia, preoccupati dall’inazione delle loro «bambine» intente a sbirciare di nascosto fra le finestre socchiuse, su una strada da cui arrivano riprovevoli richiami d’amore –, che leggano pure! Questo pensavano i commercianti e i borghesi liberali: che le nostre mogli e le nostre figlie, se stando chiuse a casa non trovano di meglio da fare, caccino il naso nei libri! Ma decidiamo noi quello che va posto nelle loro mani fragili e delicate. Pagine che non possano corromperle, che non possano comunicare loro pensieri di autonomia e sogni di libertà. Dante coglie con grande acutezza il pericolo del «libro galeotto» che unisce due bocche, due braccia, due pensieri. Per questo le biblioteche, quando c’erano, avevano reparti separati: i libri per le giovinette ben esposti ad altezza di occhi e i libri proibiti messi così in alto che era impossibile raggiungerli senza una scala.
    Anch’io, per tanti anni, mi sono nutrita dei grandi romanzi dei padri. Un giorno però mi sono chiesta: ma dove sono le madri? I padri li ho qui intorno a me, mi hanno tenuto compagnia, mi hanno affascinata e innamorata, mi hanno incantata e deliziata. A quindici anni avevo letto tutto Conrad – il mio preferito di sempre –, tutto Henry James, tutto Proust, tutto Dostoevskij, tutto Verga, tutto Pirandello, tutto Faulkner, tutto Beckett – a cui per anni ho voluto assomigliare con tutta me stessa. Ero una ragazzina portata alla lettura e alla meditazione. Ho rinunciato a infiniti balli, feste, gite per leggere. A volte cercavo di mediare i due piaceri. Mi portavo il libro in barca e leggevo sotto il sole senza accorgermi del bruciore dei raggi. Mi ritrovavo tardi nel pomeriggio con le piaghe sulle spalle, un gran mal di testa e la nausea che pulsava in gola. Ma non per questo ho rinunciato. Ho perfino provato a portare un libro nella giacca a vento quando andavo a sciare. Leggevo durante le attese allo skilift. O mentre gli altri si sorbivano una cioccolata calda chiacchierando del più e del meno, mi sedevo in disparte su un gradino di legno e tiravo fuori dalla tasca il libricino di turno. Portavo con me libri di tutte le dimensioni: da saccoccia, da zaino, da borsa, da tasca, perfino da taschino. Quando si ama appassionatamente la lettura, il tempo lo si trova, a costo di mangiarsi le ore di sonno, di lesinarle al gioco, all’amore, al cinema.
    Ma ecco, a un certo punto mi sono domandata se fosse normale che fra tutti questi amati padri non ci fosse una madre. Le biblioteche non le proponevano, le grandi panoramiche critiche non le offrivano alla nostra riflessione. Quei pochi nomi femminili che rimbalzavano qualche volta nei discorsi più dotti erano fatti con una certa condiscendenza, come di fenomeni innaturali, un che di strano e di imprevisto da riporre fra le cose abbandonate nei ripostigli polverosi della memoria collettiva.
    Ci ho messo anni per scoprire che le madri c’erano eccome. Ed erano non meno brave, coraggiose, profonde, originali dei padri. Ma i loro nomi scivolavano nelle pieghe della storia letteraria come qualcosa di riprovevole e un poco stonato. Ho scoperto gli scritti delle mistiche: Il libro delle esperienze di Angela da Foligno, I dolori mentali di Cristo di Camilla Battista Varano, I dialoghi di Domenica del Paradiso. Scrittrici spesso scandalose nei loro sensuali racconti del corpo di Cristo da baciare e carezzare. Ho scoperto gli scritti delle cortigiane: Veronica Franco, Tullia d’Aragona, Gaspara Stampa, coraggiose e battagliere difenditrici della propria libertà. Ho scoperto i libri rabbiosi delle monache ribelli: L’inferno monacale di Arcangela Tarabotti, I misteri del chiostro napoletano di Enrichetta Caracciolo. Per non parlare delle straniere: La storia del principe Genji di Musaraki Shikibu, autrice dell’anno Mille, uno dei più bei romanzi orientali mai scritti, Le opere di Ildegarda di Bingen, i testi teatrali di Roswitha di Gandersheim. L’autobiografia di suor Juana Inés de la Cruz. E, ancora, che dire delle grandi scrittrici francesi come Madame de Lafayette o Madame de Staël? O delle romanziere dell’Ottocento come Jane Austen, le sorelle Brönte, come George Eliot, come Mary Shelley, l’inventrice dell’horror? O, infine, di Katherine Mansfield, la grande novellatrice?
    Questa collana ci dà l’occasione di far conoscere, a chi non li ha mai letti, i testi più popolari e felici delle grandi scrittrici del passato, e di invitare chi li conosceva già a rileggerli per scoprirne la modernità e la profondità.
    È stato difficile limitare la scelta. All’inizio, infatti, il mio elenco era molto lungo. Ma per ragioni editoriali ho dovuto tagliare e tagliare, fino ad arrivare al numero di ventidue. Spero in futuro di potere allungare la lista e proporre ai lettori, ma soprattutto alle lettrici che ancora oggi sono in maggioranza, queste madri letterarie che rappresentano un grande esempio da seguire per chi voglia scrivere, e un grande piacere per chi voglia godersi un libro ben pensato e ben raccontato.


    Collana «I classici della letteratura. Grandi autrici» del Corriere della Sera: 22 romanzi – che poi sono diventati 25 - scritti da grandi donne del ’700, ’800, ’900, selezionati da Dacia Maraini: 
    1. Ragione e sentimento, Jane Austen
    2. Cime tempestose, di Emily Brontë
    3. Gita al faro, di Virginia Woolf
    4. Canne al vento, di Grazia Deledda
    5. Jane Eyre, di Charlotte Brontë
    6. L'età dell'innocenza, di Edith Wharton
    7. La mia Africa, di Karen Blixen
    8. Chéri, di Colette


  • Il ventre di Napoli, di Matilde Serao
  • La bella storia di Silas Marner, di George Eliot
  • Alexis o il trattato della lotta vana - Il colpo di grazia , di Marguerite Yourcenar
  • Un incantevole aprile, di Elisabeth von Arnim
  • La principessa di Clèves, di Madame de La Fayette
  • La piccola Fadette, di George Sand
  • La casa nel vicolo, di Maria Messina
  • La foresta della notte, di Djuna Barnes
  • La piccola istitutrice e altri racconti, di Katherine Mansfield
  • L'imperatore di Portugallia, di Selma Lagerlöf
  • Una donna, di Sibilla Aleramo
  • Cortile a Cleopatra, di Fausta Cialente
  • Vicino al cuore selvaggio, di Clarice Lispector
  • La gita delle ragazze morte - La rivolta dei pescatori di Santa Barbara, di Anna Seghers
  • Le solitarie, di Ada Negri
  • Artemisia, di Anna Banti
  • La signora Dalloway, di Virginia Woolf


  • Informazioni tratte da Wikipedia e dai molti siti che parlano del libro della von Arnim, dal sito de La Repubblica e del Corriere della Sera

    lunedì 30 maggio 2016

    Roma Poesia Reading - 28 maggio 2016

    Da Alessandra:

    La Tirnità de pellegrini, di Giuseppe Gioacchino Belli

    Che ssò li pellegrini? Sò vvassalli, 1
    pezzi-d’ira-de-ddio, girannoloni,
    che vviaggeno cqua e llà ssenza cavalli
    e cce viengheno a rroppe li cojjoni. 2

    E appena entreno a Rroma calli-calli 3
    co le lòro mozzette e li sbordoni,
    ’ggna alloggialli, sfamalli, ssciacquettalli, 4
    come fússino lòro li padroni.
           
    Ma sti bboni cristiani de Siggnori
    che li serveno a ccena, ammascherati
    da sguatteri, da cochi e sservitori,
     

    je dicheno in ner core: «Strozza, strozza; 5
    ma gguai, domani, si li tu’ peccati
    me te porteno avanti a la carrozza».

    Giovedì santo 9 aprile 1846

    Note
    1 Canaglia.
    2 A disturbare.
    3 Caldi caldi.
    4 Qui si allude alla lavanda de’ piedi.
    5 Mangia, mangia: ingolla, ingolla.


    Da Nunziata

    Il facchino, di Armando Fefè
     
    Il FACCHINO di via LATA (adiacente a piazza del Collegio Romano) è una delle più note statue parlanti:
    rappresenta un “acquaiolo” (acquarenari o portatori di acqua) che porta in mano un barilotto con un foro centrale da cui si versa acqua nella sottostante vaschetta.
    Secondo un’altra leggenda la piccola fontana sarebbe stata dedicata ai facchini portatori di vino, ed assumerebbe le fattezze di un certo Abbondio Rizo, noto per la sua forza ma anche per la sua smoderatezza nel bere.
    In passato la piccola fontana era sormontata da una lapide dedicatoria su cui era impressa in latino una dedica che tradotta suona così:
    “ Ad Abbondio Rizzo, coronato sul pubblico marciapiede espertissimo nel legare e soprallegare fardelli, il quale portò quanto peso volle, vissè quanto potè, ma un giorno, mentre portava un barile di vino in spalla e un altro in corpo, morì senza volerlo”
    Coronato su pubblico marciapiede sta a ricordare uno strano rituale a cui doveva sottoporsi ogni facchino: i colleghi gli facevano ripetutamente battere il sedere sul marciapiede nel punto esatto della postazione a lui riservata.
    Il poeta romanesco Armando Fefè vissuto tra il 1905 e il 1969, ispirandosi a questa statua ha composta questa breve e simpatica poesia:

    St’amico che se fa chiamà Facchino,
    faceva invece l’oste,
    e fregava le poste
    mettènno l’acqua ar vino.
    In fin de vita se la vide brutta
    E disse ar Padreterno:
    “Signore, si me sarvi da l’inferno
    L’acqua vennuta la riverso tutta”.
    ‘Mbè, so’ quattrocent’anni e ancora butta.


    E ancora

    La bellezza di Roma, di Gabriele D'Annunzio

    D'Annunzio disegna Piazza di Spagna, una delle più belle piazze romane, in un momento di particolare festosità: l'eleganza degli elementi architettonici (la chiesa, la scalinata, l'obelisco, la fontana) è posta in risalto dal sole primaverile, la luce dilagante e dorata, i colori della Pietra, lo scintillio delle acque compongono uno spettacolo animato e felice, in cui si inseriscono, appena accennate e intonate all'ambiente, le figure di una bella ragazza che passa e del giovane poeta stesso;
    La grazia di questa composizione deriva anche dalla sua musicalità, facile ed evidente come quella di una canzone.

    Dolcemente muor Febbraio
    in un biondo suo colore.
    Tutta a 'l sol, come un rosaio,
    la gran piazza  aulisce in fiore.
    Dai novelli fochi accesa,
    tutta a 'l sol, la Trinità
    su la tripla scala ride

    ne la pia serenità.
    L'obelisco pur fiorito
    pare, quale un roseo stelo;
    in sue vene di granito
    ei gioisce, a mezzo il cielo.
    Ode a pié de l'alta scala
    la fontana mormorar,
    vede a 'l sol l'acque croscianti
    ne la barcall scintillar.
    In sua gloria la Madonna
    sorridendo benedice
    di su l'agile colonna
    lo spettacolo felice.
    Cresce il sole per la piazza
    dilagando in copia d'or.
    E' passata la mia bella
    e con ella va il mio cuor.

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    Da Daniela

    Viaggio in Italia, di Wolfang Goethe

    Roma, 7 novembre.
    Sono qui da sette giorni e lentamente si va formando nella mia mente il concetto generale di questa città. Non faccio altro che andare in giro senza riposo; studio la topografia della Roma antica e della moderna, guardo le ruine e i palazzi, visito una villa e l'altra e le cose più meravigliose mi cominciano a diventar familiari; apro solamente gli occhi, guardo, vado e ritorno, poiché solo in Roma è possibile prepararsi a godere Roma.
    Confessiamolo pure, è un'impresa ardua e dolorosa, cavar fuori la vecchia Roma dalla nuova; ma si deve fare e sperare in una soddisfazione finale inapprezzabile. Si incontrano da per tutto tracce di una magnificenza e di uno sfacelo che sorpassano ogni nostra immaginazione. Quello che hanno lasciato i barbari è stato devastato dagli architetti della nuova Roma.

    Se si pensa che questa città vive da più di duemila anni, a traverso mutamenti così svariati e profondi, e che è ancora la stessa terra, gli stessi monti e spesso le stesse colonne e gli stessi muri, e nel popolo ancora le tracce dell'antico carattere, allora si diventa complici dei grandi decreti del destino e riesce difficile in principio all'osservatore di notare come Roma segue a Roma e non solo la nuova e la vecchia, ma anche le diverse epoche della vecchia e della nuova. Io cerco ora perfino i punti seminascosti, trovando molto giovamento dagli studi precedenti, poiché dal secolo XV in poi sono stati artisti e dotti in gran numero che hanno dedicata tutta la loro vita a questa impresa.
    Questa sconfinata profondità opera in noi silenziosamente» quando ci aggiriamo per le vie di Roma in cerca di cose da ammirare. Altrove bisogna cercare attentamente per iscoprire cose che abbiano significato, qui invece ne siamo circondati e riempiti Dovunque si vada o si stia si è sicuri d'aver davanti agli occhi un quadro vario e complesso. Palazzi e ruine, giardini e deserti, vastità ed angustia, cupole e stalle, archi di trionfo e colonne spezzate, e spesso tutte queste cose così vicine le une a le altre che si potrebbero disegnare in un solo foglio. Ma ci vorrebbero migliaia di bulini per esprimere quello che vorrebbe dire una sola penna! E poi la sera si torna a casa stanchi ed esausti per l'ammirazione e per la meraviglia...

    http://www.tesoridiroma.net/letteratura/roma_goethe.html


    Da Tania

    Luna di un pomeriggio d’estate a Roma, di Endre Ady

    “Sbirciando su Roma, / con al seguito uno stormo di rondini, / invia ovunque il suo beffardo sorriso / la Luna d’un pomeriggio d’estate. / Azzurrità e rosso immensi / oggi recano dal passato / di nuovo e ancora ciò che fu. / Mutano I sacri campi il velo opaco, / I colli il loro colore di sogno: / intessuta fra trionfi e rovine, / tra Luna e Sole, / distesa s’affaccenda e s’agita / Roma nel tempo. / Oh eternità meravigliosa! / santo, antico, mutabile sito, / Urbs, tu che fai dimenticare, / si traggono fuori dall’inferno della vita / dell’io il mio corpo e la mia anima- / tu divina, tu protettrice sommità! / Ecco, t’ho portato me stesso, / adesso dammi riparo e difendimi, / Tu bella, tu provvida, tu eterna. / In eterno vivo ed ho vissuto, / cambio sembianze soltanto, / come Ulisse il greco. / Benedico Roma che brulica, che stringe / ogni cosa nel suo abbraccio, / grande anche nelle mollezze. / Oggi, se lo volessi, / sull’ala d’un sogno vespertino / posso essere Remo. / Rimiro le donne attuali, / i tempi andati e che verranno: / da tanto e tanto io vivo qui, / ed è uguale qui ogni vita. / Anche la luna già ci conosce, / sogghigna e non riscalda: / sbirciando passa su Roma”.

    Dalla raccolta “La vita che fugge” 1912


    Da Anna Maria F.




    La nascita de Roma, di Vincenzo Galli


    Romolo disse a Remo: « Er sorco è fatto.
    Mo ce rimane da riempì er quadrato
    de case e scòle; un murajone adatto
    listesso a un baluardo corazzato...


    Su, porteme la carce!... ››. «Ah tutto matto...
    _ je rispose er fratello, impaturgnato -
    nun ciai nemmanco un cìnico de tatto
    co' 'st'arie da ingegnere appatentato?!


    Co' la cofena in collo, amico mio,
    nun me ce vedi!...›› « Embè, vordì che allora.
    uno dei noi è de troppo... e nun so' iol... ››


    Accusì j'ínfirzò una lama in panza!...
    E quello fu er principio, er giorno e l'ora
    che a Roma cominciò... la fratellanza!...


    Da Silvana

    Satira IX,1, di
    Orazio


    Il seccatore

    Mi trovavo a camminare lungo la via Sacra, come è mia abitudine, mentre pensavo fra me e me non so che sciocchezze, tutto preso in quelle: ed ecco che arriva un tizio che mi era noto solo di nome, ed afferratami la mano mi dice: "Come va, carissimo ?". "Benissimo, finora - io dico - e ti auguro ogni bene".
    Poiché mi teneva dietro, lo precedo: "Desideri forse qualcosa ?". Ma egli disse: "Dovresti conoscermi, siamo letterati". Allora io dico: "Per questo fatto conterai di più ai miei occhi". Tentando disperatamente di andarmene, andavo più veloce, talvolta mi fermavo, dicevo non so che all'orecchio dello schiavo, mentre il sudore grondava fino all'estremità dei calcagni. Dicevo fra me: "Felice te, Bolano, che ti va subito il sangue alla testa" - mentre egli ciarlava di qualunque cosa e lodava i quartieri e la città. Poiché non gli rispondevo nulla, disse: "Cerchi invano di andartene, lo vedo già da un pezzo; ma non ti serve a nulla, ti terrò sempre dietro; ti starò alle costole da qui a dove sei diretto".
    "Non c'è bisogno che tu faccia un giro così lungo: voglio far visita ad un tale che tu non conosci; è a letto malato distante da qui, oltre il Tevere, vicino ai giardini di Cesare".
    "Non ho niente da fare e non sono pigro: ti seguirò senza tregua".
    Abbasso le orecchie, come un asinello scontento, quando sopporta con la schiena un peso troppo gravoso. Egli attacca a parlare: "Se ben mi conosco, non stimerei di più l'amico di Vario, non di più l'amico di Visco: infatti chi potrebbe scrivere versi più lunghi o chi più velocemente di me ? Chi potrebbe danzare più leggiadramente ? Io canto in modo tale che persino Ermogene sarebbe invidioso".
    26 Quello era il momento di interromperlo: "Hai una madre, un cognato, che hanno bisogno che tu stia bene ?".
    "Non ho nessuno: li ho seppelliti tutti".
    "Beati loro, ora resto io. Dammi il colpo di grazia: dunque incombe su di me il triste destino che una vecchia fattucchiera sabina mi vaticinò mentre ero ragazzo dopo aver scosso l'urna profetica: costui non porteranno via né i terribili veleni, né la spada di un nemico, né la pleurite, né la tisi, né la gotta che rende lenti: una volta o l'altra un chiacchierone lo distruggerà; se ha buon senso eviti le persone loquaci, appena sarà diventato adulto".
    Si era giunti presso il tempio di Vesta, trascorsa ormai la quarta parte del giorno ( 9/10 del mattino ) e allora gli toccava presentarsi in giudizio, avendo offerto garanzia; se non l'avesse fatto, doveva perdere la contesa.
    "Se mi vuoi bene, disse, assistimi un po' qui".
    "Possa morire, se sono capace di assisterti, o conosco i diritti civili; ed inoltre sono diretto di fretta dove sai".
    "Sono in dubbio su cosa fare - disse- se lasciare te o la causa".
    "Me, per favore".
    "Non lo farò" - rispose - e prese a precedermi; io, dal momento che è difficile lottare col vincitore, lo seguo; da questo punto riprende il discorso: "Come si comporta Mecenate con te ?".
    "E' un tipo di poca compagnia e di sano giudizio".
    "Nessuno ha saputo far uso della fortuna meglio di te. Avresti in me un grande aiutante, che potrebbe farti da spalla, se volessi presentare ( a lui ) quest'uomo: potessi morire se non avresti scalzato tutti".
    "Lì non si vive in questo modo che tu pensi; e non c'è casa più pura di questa, né più aliena a questi mali - io dico - e non mi disturba affatto che egli sia più ricco o più saggio: c'è per ciascuno il suo posto".
    "Racconti un fatto grande, a stento credibile".
    "Eppure è così".
    "Mi interessi, perciò vorrei essere uno dei suoi intimi amici".
    "Basta che tu lo voglia: dato il tuo valore, lo conquisterai; ed è tale da poter essere vinto, e per questo ritiene difficili i primi approcci".
    56 "Non mancherò di ardire: corromperò i servi con doni; non desisterò se oggi non sarò stato ricevuto; cercherò le occasioni giuste, gli andrò incontro agli incroci, lo accompagnerò. Niente la vita diede agli uomini senza grande fatica".
    Mentre dice queste cose, ecco che arriva Fusco Aristio, a me caro e tale da conoscere bene quell'individuo. Ci fermiamo. "Da dove vieni e dove vai ?" - chiede e risponde. Presi a tirarlo per la toga, stringergli con la mano le braccia del tutto insensibili, facendo cenni, ammiccando con gli occhi, perché mi portasse via. Quel cattivo burlone faceva finta di niente ridendo; la bile mi bruciava il fegato. "Dicevi di volermi dire certamente in segreto non so che".
    "Mi ricordo bene, ma te lo dirò in un'occasione migliore: oggi è il trentesimo sabato: non vorrai mica recare offesa agli ebrei circoncisi ?". Io rispondo: "Non ho nessuno scrupolo religioso".
    "Ma io sì ! Sono un po' meno sicuro, uno dei tanti. Mi perdonerai; me ne parlerai in un altro momento".
    Questo giorno era sorto così nero per me ! Il briccone se la svigna e lascia me sotto il coltello. Per caso gli viene incontro l'avversario nella causa ed esclama a gran voce: "Dove vai, scellerato ? - e - Posso prenderti per testimone ?". E io senza esitazioni gli porgo l'orecchio. Lo trascina in giudizio; confusione da entrambe la parti, accorrere da ogni parte. Così mi salvò Apollo.


    Testo originale

    Ibam forte uia Sacra, sicut meus est mos,
    nescio quid meditans nugarum, totus in illis.
    accurrit quidam notus mihi nomine tantum,
    arreptaque manu "quid agis, dulcissime rerum?"
    "suauiter, ut nunc est," inquam, "et cupio omnia quae uis"
    cum assectaretur, "num quid uis?" occupo. at ille
    "noris nos" inquit; "docti sumus." hic ego "pluris
    hoc" inquam "mihi eris." misere discedere quaerens,
    ire modo ocius, interdum consistere, in aurem
    dicere nescio quid puero, cum sudor ad imos
    manaret talos. "o te, Bolane, cerebri
    felicem!" aiebam tacitus, cum quidlibet ille
    garriret, uicos, urbem laudaret. ut illi
    nil respondebam, "misere cupis" inquit "abire;
    iamdudum uideo: sed nil agis; usque tenebo;
    persequar hinc quo nunc iter est tibi." "nil opus est te
    circumagi: quendam uolo uisere non tibi notum:
    trans Tiberim longe cubat is, prope Caesaris hortos."
    "nil habeo quod agam et non sum piger: usque sequar te."
    demitto auriculas, ut iniquae mentis asellus,
    cum grauius dorso subiit onus. incipit ille:
    "si bene me noui non Viscum pluris amicum,
    non Varium facies: nam quis me scribere pluris
    aut citius possit uersus? quis membra mouere
    mollius? inuideat quod et Hermogenes ego canto."
    interpellandi locus hic erat: "est tibi mater,
    cognati, quis te saluo est opus?" "haud mihi quisquam:
    omnis composui." "felices! nunc ego resto.
    confice; namque instat fatum mihi triste, Sabella
    quod puero cecinit diuina mota anus urna:
    hunc neque dira uenena nec hosticus auferet ensis,
    nec laterum dolor aut tussis, nec tarda podagra;
    garrulus hunc quando consumet cumque: loquaces,
    si sapiat, uitet, simul atque adoleuerit aetas."
    uentum erat ad Vestae, quarta iam parte diei
    praeterita, et casu tunc respondere uadato
    debebat quod ni fecisset, perdere litem.
    "si me amas" inquit "paulum hic ades." "inteream si
    aut ualeo stare aut noui ciuilia iura;
    et propero quo scis." "dubius sum quid faciam" inquit,
    "tene relinquam an rem." "me, sodes." "non faciam" ille,
    et praecedere coepit. ego, ut contendere durumst
    cum uictore, sequor. "Maecenas quomodo tecum?"
    hinc repetit: "paucorum hominum et mentis bene sanae;
    nemo dexterius fortuna est usus. haberes
    magnum adiutorem, posset qui ferre secundas,
    hunc hominem uelles si tradere: dispeream ni
    summosses omnis." "non isto uiuimus illic
    quo tu rere modo; domus hac nec purior ullast
    nec magis his aliena malis; nil mi officit" inquam
    "ditior hic aut est quia doctior; est locus uni
    cuique suus." "magnum narras, uix credibile." "atqui
    sic habet." "accendis, quare cupiam magis illi
    proximus esse." "uelis tantummodo, quae tua uirtus,
    expugnabis; et est qui uinci possit, eoque
    difficilis aditus primos habet." "haud mihi deero:
    muneribus seruos corrumpam; non, hodie si
    exclusus fuero, desistam; tempora quaeram;
    occurram in triuiis; deducam. nil sine magno
    uita labore dedit mortalibus." haec dum agit, ecce
    Fuscus Aristius occurrit, mihi carus et illum
    qui pulchre nosset. consistimus. "unde uenis? et
    "quo tendis?" rogat et respondet. uellere coepi,
    et prensare manu lentissima bracchia, nutans,
    distorquens oculos, ut me eriperet. male salsus
    ridens dissimulare: meum iecur urere bilis.
    "certe nescio quid secreto uelle loqui te
    aiebas mecum." "memini bene, sed meliore
    tempore dicam: hodie tricesima sabbata: uin tu
    curtis Iudaeis oppedere?" "nulla mihi" inquam
    "religio est." "at mi: sum paulo infirmior, unus
    multorum: ignosces: alias loquar." huncine solem
    tam nigrum surrexe mihi! fugit improbus ac me
    sub cultro linquit. casu uenit obuius illi
    aduersarius et "quo tu turpissime?" magna
    inclamat uoce, et "licet antestari?" ego uero
    oppono auriculam. rapit in ius: clamor utrimque:
    undique concursus. Sic me seruauit Apollo